Sacred Concert#3

Ieri sera abbiamo concluso un anno di YogiSound con il concerto meditativo di Antonio Testa

E’ stato un viaggio intenso e magico

ci rivediamo a settembre con altre attività!

Namaste!

Paola

La via del canto

YogiSound

Perché si canta?

Perché cantare è un bisogno istintivo?

Perché ci fa così bene?

Molte ricerche etnomusicologiche e antropologiche ci hanno lasciato pagine e pagine di scritti sulla relazione di molti popoli con la musica e soprattutto con il canto.

E’ evidente che ci si mette a cantare quando ci si sente bene, e ci si sente ancora meglio quando ci si mette a cantare.
Ci sono ambienti che “cantano” appena vengono sollecitati. 

Cantare rende più vivo l’ambiente circostante e grazie a questa sintonia si può facilmente diventare tutt’uno con esso. Cantare genera benessere, ci rende vigili, ci aiuta ad avere una migliore postura grazie ad una controazione energetica antigravitazionale della colonna vertebrale. E tutto questo genera ovviamente più presenza nel mondo reale.

La voce mette a nudo le emozioni, e soprattutto smonta le strategie di controllo che si esercitano inconsciamente per non fare vedere suddette emozioni, ad esempio, il…

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Siamo pront@ per il nostro ritiro di fine estate

YogiSound 

Retreat

Programma 

Venerdì 10

18.30 cerchio di apertura

19.00 YogiSound

20.30 Cena

22.00 Yoga Nidra (facoltativo)

Sabato 11

7:00 YogiSound

9.00 colazione

10.30 passeggiata silenziosa in natura

12.30 Pranzo

16.00 pratica di canto (Nada Yoga)

18.00 YogiSound (Yin Yoga)

19.30 Bagno di Gong

20.30 cena 

Domenica 12

7.00 YogiSound

8.30 Colazione

10.30 passeggiata in natura o trattamento Gong

13.00 Pranzo

partenze

Ascolto Sacro

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Il suono nasce dalla vibrazione di un corpo elastico nell’atto di sfregarsi contro un altra superficie. Queste vibrazioni producono una successione di compressioni ed espansioni delle molecole dell’aria o qualsiasi sostanza solida, liquida o gassosa. Si generano così delle onde sonore che arrivano alla membrana del nostro udito che le «traduce» trasformando i segnali in impulsi nervosi che vengono rielaborati dal cervello in suoni comprensibili.

Ascoltare quindi significa ricevere e tradurre quelle oscillazioni all’interno del nostro stesso corpo, cioè farle nostre e vibrare in simpatia. 

Nell’ascolto della musica (soprattutto dal vivo) noi stessi quindi diventiamo vibrazione, e propaghiamo ulteriormente questo arousal ad altri corpi. Cioè diventiamo parte della risonanza, la amplifichiamo. Attraverso l’aria.

Non è questo un fenomeno meraviglioso che ci ricorda che siamo una cosa sola con il pianeta, cioè con tutto quello che vibra e si trasforma, trasformandoci?

Viviamo in un’epoca dove manca un approccio ecologico al suono, una presa di consapevolezza dell’atto di ascoltare, siamo bombardati di rumore, di musica sintetica, fatta male, tutta uguale, e addirittura sempre digitale. C’è poco ascolto di musica acustica, dal vivo (oggi più che mai). 

Considero urgente una ri-educazione all’ascolto, ma non come interpretazione intellettuale degli stili, le epoche, la cosa culturale intorno ai gruppi o compositori di musica. Benché indispensabile per crearsi una base alla quale attingere per poter accedere ad un consumo un po’ più sofisticato di composizioni. Io sento l’esigenza di generare un’educazione all’ascolto puro, completo, totalizzante. Parlo di sentire le vibrazioni sulla pelle, nel cuore, nel corpo sottile.

Ascoltare e sentire anche i suoni del mondo, scoprire quanto sono musicali i giochi delle frasi vocaliche, gli uccelli di mattina in mezzo alla campagna, i grilli in una sera estiva, il respiro del mare, il vento tra le foglie in un pomeriggio di autunno… cioè leggere la realtà da un punto di ascolto musicale. Partecipare attivamente a questa sinfonia vitale alla quale siamo stati invitati.

Un ascolto che ci permetta di stare nel momento presente, per non perderci nulla di questo passaggio terreno, fare risuonare questo corpo che ci hanno prestato. Per vivere completamente, o per sbaragliare ciò che vita non era, come direbbe il caro Thoreau.

“Turiya” si chiama tra gli yogi quello “stadio di coscienza più sottile”, che supera lo stato di veglia, di sonno, e di sonno profondo. I tre stati della coscienza. Turiya sarebbe il quarto stato, cioè il silenzio che c’è tra un suono e un altro. Lo spazio «tra» un canto e l’altro.

E’ lo stato di trascendenza che segue alla produzione del suono, ed è profondamente estatico quando si è consapevoli di questo, soprattutto nel istante immediato alla fine di una meditazione sonora.

Io ritorno inevitabilmente alla nostra Alice Coltrane (pianista jazz che ha fondato in California il Centro Vedanta) per parlare del suo “Turiya e Ramakrishna”. Ascoltatelo e sentite il crescendo fino al minuto 4.16 dove entra un solo di basso (Ron Carter) che rimane sospeso, sostenuto dai tamburi e gli appoggi armonici del piano di Alice. Non ho una illustrazione migliore per la sensazione di Turiya. Secondo me qui hanno ricreato lo stato di trascendenza: 

Le pause in musica sembrano attrarre qualcosa verso di sè, come se il vuoto diventasse magnetico vero i suoni futuri e passati, un vortice irresistibile. E in quelle pause noi respiriamo lo spirito della musica e se ne siamo consapevoli, perché stiamo ascoltando attentamente, diventiamo tutt’uno con il cosmo. La pausa rappresenta la coscienza cosmica. Questa è Turiya. E’ in questo modo che gli stati di veglia, sogno e sonno profondo si fondono nell’Unità dell’Assoluto.

 Ascoltando musica strumentale dal vivo, il canto, i mantra, i Bhajans, i Kirtan, ma anche il vento, la pioggia, il canto degli uccelli in natura o addirittura il “suono del silenzio” quella vibrazione eterna, il sibilo dell’universo, ci immergiamo in uno stato meditativo profondo dove si perde la sensazione di separazione del corpo dal resto del mondo e si ha una piena e profonda consapevolezza.

In questo momento storico dobbiamo più che mai recuperare la sacralità dell’ascolto, dobbiamo rendere sacra la partecipazione ai concerti, recuperare la concentrazione totale, la compresenza nel rendere propria la vibrazione emessa da un altro corpo o strumento musicale. Dobbiamo recuperare la sensualità dell’ascolto. Dobbiamo rendere spirituale la musica. Non importa il genere, anche un concerto punk può diventare sacro, perché sacro è il rituale del donare la mia completa presenza nella condivisione e la ricezione di quella vibrazione sonora proposta durante la performance.

Perché sacro è il suono e l’inizio di tutto fu un verbo.

Respira!

L’anno che ci siamo appena lasciati alle spalle, è stato caratterizzato da un disturbante senso di apnea, una malinconica pressione sottoglottica, come un brutto ricordo pneumatico del quale ancora non ce ne siamo liberati del tutto. Ricordo ancora il fortissimo parallelismo tra la frase che pronunciò George Floyd, l’uomo afroamericano che il 25 maggio del 2020 ha perso la vita a Minneapolis, negli Stati Uniti, dopo quasi 9 minuti di agonia (soffocato dalla pressione sul collo dal ginocchio di un poliziotto). “I can’t breathe”, non riesco a respirare. Queste sono state le sue ultime parole. L’episodio diede vita al movimento “black lives matter” e mise in evidenza la discriminazione e il terribile e assurdo razzismo che ancora sopravvivono nelle nostre società. E purtroppo nelle istituzioni.

“Non posso respirare” è una frase terribile. Ed è stato ancora più forte perché è arrivata nel momento in cui negli ospedali mancavano i respiratori per le persone affette dal Covid-19. La narrazione sul virus ci riportava al pericolo di respirare la stessa aria degli altri, e le mascherine ci toglievano la possibilità di prendere aria comodamente. 

Sconvolge questo collettivo senso di apnea e paura, perché respirare è tutto. Prendere aria significa essere qui. Ora. Il respiro, il soffio vitale ovvero il “prana” per gli yogi, il “ki” per i cinesi (che include il concetto di energia vitale e anche di spirito), è la forza che permette alla vita di esistere. Un ritmo dove, insieme alla sistole e la diastole, si gioca il nostro passaggio sulla Terra. Un ritmo costante, un battito, un eterno movimento. 

Questo ritmo è la fonte dell’energia che ci interconnette con il mondo e respirare la stessa aria di tutti gli altri esseri è quello che ci rende un Universo, un organismo che respira facendoci respirare.

Eppure spesso non ce ne accorgiamo neanche di respirare male, di trattenere l’aria, di creare costrizione nella nostra laringe e non riempire abbastanza i polmoni. La paura, l’ansia, lo stress ci portano a stare in apnea, e più smettiamo di respirare correttamente, più siamo fragili, in balia delle emozioni che ci investono senza che ce ne accorgiamo. Una boccata al momento giusto invece ci dà la possibilità di prendere distanza. Una boccata per non abboccare. Perché respirare porta ossigeno nuovo nel sangue.

Una chiave per una sana respirazione è una inspirazione lenta, costante, controllata e un espirazione ancora più costante, il più silenziosa possibile.

L’aria poi, è la componente che ci permette di parlare e cantare! La voce è aria sonora, il suono prodotto dalla nostra laringe è un fischio ed è personale ed inimitabile perché è il corpo di ognuno di noi a generarla, con la sua chimica e la misura delle sue cavità, delle sue corde, della sua gabbia toracica, e poi è, a sua volta, legata all’ambiente sonoro-culturale nel quale siamo cresciuti. Quindi un elemento unico, che non ha le stesse caratteristiche in nessun altro essere. Una meravigliosa magia dell’abitare un corpo umano.

Il respiro è qualcosa alla quale ci possiamo appigliare per meditare. E’ quasi impossibile controllare la nostra mente ma possiamo agganciarci all’atto respiratorio. E lo possiamo modulare, rallentare, contare, spezzettare, possiamo respirare da una narice e poi dall’altra, possiamo accelerarlo. Chiudere gli sfinteri e stare in apnea, insomma possiamo controllare la funzione vitale di maggiore importanza per il nostro organismo. E controllarla significa esserne consapevoli. E concentrati. Quindi non in balìa della «monkey mind»

Anche nella pratica yogica il focus principale è il respiro, perché lo yoga nasce come una pratica di purificazione, come un elisir di lunga vita tra gli asceti del Himalaya, o i tantrici del Kashmir. 

E tutto questo ha influenzato sicuramente anche il budhismo e le sue pratiche meditative.

Il lavoro sull’aria nelle pratiche yogiche si chiama “pranayama” e si tratta di esercizi mirati e strutturati che possono essere calmanti, attivanti, purificatori. Le respirazioni lente e profonde, è noto, hanno un ché di sedativo, è questo ha un effetto molto profondo sul nostro sistema nervoso ed endocrino. Il sangue risulta rinnovato, e quindi nutre in modo più efficace l’organismo, il cervello, i nervi spinali.

Le pratiche respiratorie possono anche essere delle vere e proprie tecniche per generare stati alterati di coscienza, un po’ psichedelichi, come la terapia olotropica di Stanislav Grof dove la respirazione porta a stati mentali alterati, una tecnica di autoesplorazione un po’ sciamanica per arrivare a prendere contatto con l’inconscio togliendo il velo delle illusioni coscienti.

Qualunque sia la pratica che scegli, è urgente concentrarsi su di essa, le respirazioni consapevoli hanno un risultato immediato e non costano più di alcuni momenti al giorno. Di contro la salute mentale e fisica ne trae tantissimo giovamento.

Quindi respira! lascia che il vento ti attraversi, diventa un flusso unico con l’ambiente, gioca all’interscambio fisico-chimico di molecole, sii consapevole di essere parte di un tutto cosmico. 

Fermati. 

Semplicemente stai in questo ciclo di morte e rinascita costante. 

Ora

Ora

Ora

Nel ritmo incessante della vita.

ps. Ti lascio un esercizio di respirazione molto semplice che puoi fare nei momenti alienanti della giornata o appena svegli@, o incluso prima di dormire la sera:

Respirazione quadrata:

Concentrati sul terzo occhio (un punto al centro della fronte)

Porta il tuo respiro ad essere calmo e profondo, usa la respirazione addominale

rilassa le spalle

prendi un tempo in quattro quarti per ognuna di queste fasi:

inspira

apnea

espira

apnea

e ricomincia

(fallo per 10 minuti)

Il potere del silenzio

Quando la pandemia ebbe inizio quasi un anno fa e abbiamo dovuto rimanere tutti a casa, ogni volta che mi affacciavo alla finestra per respirare un po’ di aria fresca, notavo qualcosa di rarefatto che mi affascinava. Qualcosa di assolutamente nuovo, unico e piacevole “è l’aria pulita” pensai, “è la luce che preannuncia la primavera” o forse erano gli odori delle cucine degli appartamenti del centro di Milano che lavoravano senza sosta per la prima volta notte e giorno. Ma no. Quella rarefazione della realtà che tanta pace mi dava era il silenzio. Non definito ma centellinato da altri suoni. Io credo che il silenzio assoluto non esiste, anche in una camera anecoica si sentono i fluidi del corpo e i battiti del cuore e chi l’ha provata racconta che il proprio battito diventa costante e sempre più presente, un’ esperienza simile al racconto di Poe sul cuore rivelatore. 

Il silenzio di una città può essere inquietante, in quarantena a volte sembrava l’atmosfera di un libro di Philip Dick “io sono vivo, voi siete morti”  o l’inizio dell’Eternauta di Oesterheld dove per la prima volta si sentiva Buenos Aires completamente silenziosa sotto quell’inquietante neve antartica. 

In natura invece è popolato da piccoli rumori di uccelli, rami, vento, animaletti che fuggono al sentire dei nostri passi, e poi c’è il nostro respiro, rumorosissimo in questi ambienti vellutati. Quindi il silenzio va scelto, assaggiato, gustato. (Un giorno mi piacerebbe diventare sommelier di silenzi).

Il suono della città era affascinante perché era smussato dei rumori delle macchine, dei tram, dei clacson e si era, per contro, popolato del tintinnare di stoviglie, voci di madri chiamando i bambini, conversazioni da sigarette condivise sul balcone, uccelli felici di non dover urlare, e le campane della chiesa che sono tornate ad avere la funzione di scandire le ore, l’andare avanti della giornata, suddivisa in una griglia di 24 suddivisioni sonore. La chiesa nuovamente custode della matematica che misura le nostre vite. Anche se amo il suono delle campane pensai che è strano, la spiritualità dovrebbe essere gassosa, io immagino lo spirito come un gas che si espande senza controllo e senza tempo, più Kairos che Kronos. Forse è quella la funzione di questa istituzione, un gas va contenuto in un recipiente per poter avere una forma. Senza involucro nessuno lo può possedere, nascondere, scambiare. Le religioni sarebbero una specie di fabbricanti di bombolette. E la loro moneta di scambio è il tempo inscatolato, scandito dalle campane. Con la promessa, quella sì, di un paradiso dove finalmente diventare gas, dispersione senza tempo e quindi eterno, felice, in pace.

Ma tornando al nostro discorso, il silenzio quindi è assolutamente relativo, quasi magico perché mutevole. Non è assoluto. C’è musica silenziosa ad esempio, piena di spazio, di respiri. Il silenzio a volte è solo un respiro tra una frase e l’altra, o a volte è una presa di consapevolezza, un satori come direbbero gli zen. Un fulmine di grazia. Una strada vuota appena accarezzata dal sole in inverno. Quei momenti dove non c’è pensiero. 

Ecco. Il silenzio forse è semplicemente assenza di pensiero. E questo potrebbe diventare un quesito filosofico per i napoletani che usano la frase “staje senza penziero!”  (che io trovo geniale) per dire stai calmo, non preoccuparti. Ma si può veramente stare senza pensieri? Sembra di no. 

Quello che si possiamo raggiungere però è l’abbassamento della quantità di pensiero.  

E’ tra uno e l’altro che poi accade la meditazione, appunto negli spazi di quiete. Il lavoro del meditante sta tutto nell’allungare questi spazi di poca attività mentale. Abbassando la frequenza del pensiero per creare equilibrio nel nostro sistema nervoso, perché più la frequenza è alta, più le sinapsi si muovono velocemente (in India chiamano la mente “Monkey mind” perché salta da una cosa all’altra così come le scimmie saltano da un ramo all’altro con fare un po’ pazzoide).

L’importanza delle onde cerebrali nei processi cognitivi  è diventata sempre più rilevante per le neuroscienze, confermando un po’ gli antichi testi vedici che empiricamente la avevano vista lunga.

O forse il silenzio è semplicemente essere sintonizzati con l’intorno? 

Le onde del cervello che sono perfettamente in vibrazione simpatica con la vibrazione esterna, sia essa musica, ambiente, luminosità.

Mario Brunello, violoncellista e compositore con una consapevolezza della sintonizzazione e la bellezza, scrisse infatti un piccolo libro in quattro movimenti strutturato come una sinfonia, che si chiama “Silenzio” dove affronta i tipi di silenzio e scrive “Un musicista, infatti, scandisce i suoi spazi di vita tra pause e note, suoni e assenza di suoni, movimenti e immobilità” 

Fare musica è giocare con il silenzio, è decorarlo, abitarlo e svuotarlo. Senza silenzio non può esistere la musica. Si e’ osservato che se il cervello e’ sottoposto a stimoli (musicali, luminosi, ecc) la sua naturale tendenza e’ quella di sintonizzarsi. Il principio della Risonanza Simpatica è usato nella terapia del suono per riempire ogni chakra con le vibrazioni sonore della frequenza propria. So che può sembrare complicato ma approfondiremo in un altro articolo. Quello che mi affascina è che abbassare le onde del cervello, abbassare proprio gli hertz (cicli al secondo) genera sensazione di silenzio. 

Due estati fa ho preso una tenda e uno zaino e me ne andai ad insegnare Yoga in una spiaggia di Monopoli. Ero fresca del mio training in India e cercavo di fare delle esperienze. Volevo passare dei giorni austeri e meditativi, avevo bisogno di quiete e natura. Così presi il necessario per poter dormire e mangiare, e mi stabilì nel campeggio vicino al mare. L’unico libro che portai con me era “Il silenzio è cosa viva” di Chandra Livia Candiani che scrive “non tutti i silenzi sono uguali (…) il silenzio non è tacere né mettere a tacere, è un invito, è stare in compagni di qualcosa di tenero e avvolgente, dove tutto è già stato detto. Il silenzio sorride”

E’ stato un fulmine. Il libro, lei, il silenzio. Quei giorni interi ad ascoltare solo il mare, ad osservare i granchi sugli scogli, a cucinare del riso sul fornello da campeggio, a conversare con le formiche che volevano a tutti i costi mangiarsi i miei tarallini e a fare yoga naturalmente, sono stati un bel ritiro e una interessante riflessione sullo spazio, la solitudine, il vuoto.   

Credo che sia essenziale trovare ogni giorno uno spazio di silenzio, mettere a tacere quella cocciuta macchina di fare che è la nostra testa, questa macchina un po’ lombarda che non sta mai con le “man in man”. Sedersi, cercare di trovare uno dei silenzi disponibili, il vento, il respiro, la natura, suonare uno strumento, usare la voce, scrivere o leggere poesia, per cantare o recitare mantra. So che sembra un ossimoro, ma credetemi, non lo è. Il silenzio è anche presenza. Presenza mentale.

Qualche giorno fa camminavo sulla spiaggia, nella riserva marina di Torre Guaceto, è inverno, è zona rossa, vale a dire che non ho incrociato neanche un solo essere umano nei dieci kilometri che ho camminato fino alla Torre. La sabbia intatta, come la schiena di un elefante disegnato, il cielo azzurro ma popolato di nuvolette rinascimentali, il mare verde, calmissimo a causa del vento del sud e un vento a raffiche di tantissimi nodi. Ho sentito il mio respiro fondersi con quest’aria in movimento, il rumore delle mie Dr. Martens sulla sabbia, lo scandire del tempo con un bastone che incastonavo a cada ritmico passo, i miei pensieri che uscivano fluidi, senza filtro, parlavo da sola ovviamente (è un esercizio che amo fare quando nessuno mi vede) e le illazioni mentali si snodavano come se fossero state oliate dal camminare. L’arrivo all’ultimo promontorio che somiglia ad un paesaggio scozzese e poi la Torre saracena, alta, beige, imponente sull’ultimo angolo di costa. Mi sedetti a cercare di sintonizzare un suono vocalico con il rumore esterno e così meditai, diventai silenzio io stessa, completamente fusa con il tutto intorno a me.

Così ho cominciato il 2021, ho svuotato la tazza. Ho abbracciato il nulla. 

Buon inizio dell’anno a tutti voi, vi auguro di diventare ogni tanto silenzio. Voi, insieme alle cose del mondo. 

E ora Shhhhh….

Rilassamento profondo

(Meditazione guidata)

Ho registrato questo audio che puoi usare per il tuo rilassamento profondo, ispirato a Thich Nhat Hahn, monaco buddhista della scuola zen vietnamita (Thien), poeta, attivista per la pace, vegano, animalista, uomo meraviglioso. Torturato ed arrestato, fuggì dal Vietnam negli anni ’60, per continuare il suo vagabondare con il Dharma fino a fondare «Plum Village» una comunità di monaci e laici nei pressi di Bordeaux, in Francia.

I suoi scritti toccano sempre in me delle corde sottili che non so spiegare, la consapevolezza fulminea che mi danno certe sue parole che pur facendomi tornare all’attimo presente, riempiono tutto di poesia.

Prenditi questo momento,

sdraiati sul materassino,

copriti un po’ per non sentire freddo,

indossa delle cuffie

e lasciati andare:

https://soundcloud.com/tangoabsinthe-1/rilassamento-profondo-thich-nhat-hahn-by-paola-fernandez-dellerba/s-EgDbYp3a18R

Music meditation: Om supreme

Posted on by absentha

Qualche anno fa dopo una mostra di Alva Noto all’Hangar Bicocca della Fondazione Pirelli di Milano, mi sono messa a rovistare i vinili del bookshop del museo, dischi rari di musica contemporanea ed esperimentazioni elettroniche. Trovai dopo un po’ un rarissimo disco la cui didascalia mi sorprese e aprì immediatamente un varco nella mia mente, come succede ogni tanto quando facciamo delle scoperte che arrivano improvvise e scoperchiano caselle nascoste che aspettavano di essere attivate. Il vinile in questione era “Music of five Elements” di Sam McClellan, del 1982. Lessi la didascalia, che recitava “This music was designed to be used as a kind of musical guided meditation for balancing the meridians….” e una nota di un professore del Hampshire College e di Jonathan Goldman, fondatore del NESH (New England Sound Healers). Lo pagai prima di capire cosa avevo tra le mani, e arrivata a casa, predisposi la puntina del lettore e ascoltai al buio sdraiata sul pavimento. Potrei giurare di aver sentito esattamente i quattro (cinque!) elementi muoversi lungo il mio corpo, con delle chiare visioni sinestetiche.

La bellezza un po’ poetica che si nasconde nel percepire non i suoni reali di acqua, fuoco, metallo, terra, ma “rappresentazioni” sonore di questi elementi. Linee melodiche che senza una ragione alla quale io abbia la capacità di accedere, mi si rappresentavano come stati della materia… Magia della musica direte voi, ma la mia mente ormai viaggiava nel intricato meccanismo di capire il perché. Così iniziai a fare un po’ di ricerca, e iniziai a scoprire un po’ di personaggi che nel tempo si sono entusiasmati nel capire di più su queste sinapsi musicali da un punto di vista diciamo artistico.

Così sono partita alla conoscenza di questi musicisti “sound healers”. Oh! Un mondo vasto si aprì davanti a me! Difficile districarsi però tra gonghisti, i Gong (che era un gruppo di sperimentazione avanguardista) gente che pratica Bhakti Yoga, campane tibetane, bagni sonori. E molto più difficile è stato nuotare nel mare della New Age trovando validi contributi musicali. Quel disco di Sam Clellan era interessante musicalmente!

Così ho cambiato la parola “sound” per “musica” e mi sono concentrata sui musicisti, compositori, insomma gente che ha studiato la musica per davvero! compositori e strumentisti che hanno lavorato su meditazione e musica cercando esattamente questo: non la registrazione della realtà sonora, ma la rappresentazione artistica della stessa, trovando modi nuovi, mondi sonori, sinestesie, appunto. E che hanno analizzato i rapporti tra deep listening, produzione, concentrazione, meditazione. Cercando quel flusso che porta a una connessione artistica profonda e che permette di creare dal vuoto… il tutto.

Per iniziare il viaggio tra questi compositori ovviamente sono partita dagli anni sessanta, riconfermando che notoriamente i Beatles con il loro viaggio a Rishikesh (India) e il loro soggiorno dal buon Maharishi Mahesh Yogi in mezzo alla giungla del Ganges e il parco delle tigri, hanno aperto una porta massiva verso l’Oriente e le pratiche yogiche indiane tra i giovani di allora impegnati nel fare un po’ di controcultura.

I ragazzi di Liverpool erano la punta del iceberg di un movimento che veniva già preparando il terreno da un po’ di tempo. Negli anni 50 quindi lo Yoga stava già cambiando l’opinione sulle pratiche religiose “altre” nel mondo occidentale. Insieme alla scoperta della psichedelia con personaggi come Timothy Leary con il suo “Turn on, tune in, drop out” grazie ai quali si scopriva la capacità di “sintonizzarsi” con mirate frequenze mentali, la scoperta occidentale dei chakra e il parallelismo neurologico tra i viaggi psichedelici e le meditazioni. E non a caso il termine “tune in” sintonizzarsi, parla di frequenza e riporta automaticamente alla musica. Gli studi di Neuromusic arriveranno tempo dopo, ma intanto molti musicisti ci sono arrivati attraverso percorsi creativi, e non parlo qui del movimento psichedelico (Mamas and the Papas, Jefferson Airplane, i Doors… ecc) ma di compositori che sono andati più in profondità nel cercare un parallelismo tra mente e musica, tra stati mentali e meditazione attraverso i suoni.

Così ho creato una playlist (un gioco NickHornbyniano) che ho chiamato “Meditation for musicians” è una playlist aperta, ovviamente potete collaborare, introdurre scoperte, autori, brani… Ma provatela, io ho fatto delle meditazioni potentissime!

Vi presenterò brevissimamente alcuni degli artisti che ho incluso nella mia playlist:

Alice Coltrane

Pianista meravigliosa. Ha cercato di infondere la sensibilità orientale nella musica di Occidente, il tutto in un ambiente jazz con contaminazioni sonore indiane come tambura o sitar. Ma anche con l’uso di canti, mantra. La musica è stata spesso utilizzata da Alice per trasportare il suo pubblico in stati di maggiore consapevolezza. Coltrane era una devota di Sathya Sai Baba. Nel 1972, si trasferì in California dove stabilì il Centro Vedanta nel 1975. Il suo jazz spirituale è sia una potente meditazione che una creazione musicale interessantissima.

Tony Scott

Lo conoscete sicuramente come uno dei migliori clarinettisti della storia del jazz. Ma tra gli anni settanta e ottanta iniziò una serie di esperimentazioni tra clarinetto e musica elettronica per poi negli ultimi anni dedicarsi alla ricerca del suono curativo con la sua “Healing Music” È un importante precursore dell’ascesa della musica New Age, ad esempio nel suo disco “Music for Yoga Meditation” il clarinetto di Scott si muove con il sitar su dieci tracce che tracciano l’ascesa dell’energia Kundalini attraverso i chakra.

Charlemagne Palestine

E’ stato l’enfant terrible del minimalismo newyorkese degli anni ’70, nel lignaggio di compositori come La Monte Young e Terry Riley. Nato e cresciuto a Brooklyn, Palestine ha cantato in sinagoga e finito come carillonneur nella chiesa episcopale di St. Thomas a Manhattan. Anche lui è passato dalla musica contemporanea, le esperimentazioni elettroniche, da California, New York, musica giavanese, Bali… ed Il suo album Four Manifestations on Six Elements del 1974 viene considerato il trentaquattresimo album ambient migliore di sempre secondo l’inattaccabile webzine musicale Pitchfork.

Steve Hillage

Chitarrista londinese cresciuto con il rock progressivo, alla fine degli anni settanta cominciò a giocare con delle esperimentazioni electro-spirituali. I lavori di Steve Hillage negli anni settanta ai quali ha collaborato la compagna Miquette Giraudy, coniugarono nei viaggi onirici della sua musica un alto livello di sperimentazione e complesse tecniche di produzione in studio.

Nell’era del punk, sicuramente è stato visto come un hippie, ma alla fine degli anni ’80 Teve Hillage sembra essere divenuto un punto fermo delle stanze chill-out. Hillage è stato un abile produttore di musica elettronica e ha collaborato con impensabili gruppi del periodo (come i Simple Minds). Vale la pena approfondire.

Henry Wolff e Nancy Hennings

Nel bel mezzo dei giorni d’oro del rock classico all’inizio degli anni ’70, Henry Wolff e Nancy Hennings decisero di rintanarsi nello studio della Island Records e fare un disco con solo campane tibetane. La particolarità dell’album Tibetan Bells, tuttavia, è che utilizza esclusivamente strumenti musicali acustici pur producendo suoni simili a quelli idealmente sintetizzati con strumenti elettronici.

Ascoltare il loro disco seduti su uno zafu è sinceramente un profondo viaggio interiore.

Pauline Oliveros

Oliveros ha scritto libri che formulano nuove teorie musicali, quali quelle di “Deep Listening” (ascolto profondo) e “sonic awareness” (consapevolezza sonora), che esplorano nuove modalità per concentrare l’attenzione sulla musica. E’ nata come fisarmonicista (USA) ed è diventata una figura chiave della musica d’avanguardia. Lavorò insieme al fisico Lester Ingberg con cui esplorò e teorizzò le modalità per migliorare il processo di attenzione applicato all’ascolto musicale.

La coscienza sonora è l’abilità di concentrare l’attenzione in modo cosciente e costante sulla musica e sui suoni ambientali. 

John Coltrane

Di John Coltrane sappiamo molto, e amiamo molto. Non ha creato un opera peratcolarmente meditativa (a mio avviso) ma ha saputo dialogare con gli dei, e ha creato “A Love Supreme”: un opera pervasa da un intenso misticismo

Alice raccontava a proposito della gestazione del disco:

Fu il risultato dell’introspezione e della meditazione. Dev’essere rimasto al piano di sopra per quattro o cinque giorni… E quando venne giù, fu come Mosè che scendeva dalla montagna. Che meraviglia, il dono che Dio gli aveva dato!

L’ascesi mistica di Coltrane era cominciata con la disintossicazione dall’eroina, sviluppandosi attraverso lo studio delle sacre scritture: partendo dall’originario alveo cristiano si dedicò alla conoscenza dell’Islam, della Cabala ebraica, dell’Induismo e del Buddhismo.

Brian Eno

E poi ovviamente Brian Eno e la nascita dell’ambient a metà degli anni ’70 dando vita a tutto un nuovo mondo sonoro. Con album come Discreet Music del 1975 e Music for Airports del 1978, Eno ha creato un modo di ascoltare- o non ascoltare – il suono.

E con Eno si aprì un filone molto ampio di musica meditativa, ambientale, new age, con contributi molto interessanti (alcuni meno, ma tant’è) a livello musicale ma anche di esperienze meditative legate al suono di cui cercherò di approfondire e condividere.

Proprio oggi mentre ultimavo questo articolo ho letto di una ricerca che assicura che i neuroni quando fanno sinapsi emettono dei toni precisi e quindi quando comunicano tra di loro, cantano…

e con questo non mi rimane che augurarvi un bel trip tra i meandri della vostra mente.

Ecco la playlist:

buon deep listening!

Musicoterapia

La musica guarisce il corpo e l’anima, è un potente mezzo di comunicazione e medicina, e le terapie musicali sono validissimi mezzi per lavorare alla realizzazione e al benessere fisico e mentale.

Ma Cos’è la Musicoterapia?

C’è molta confusione quando si parla di questo argomento, ci sono tante cose e attività che si autodefiniscono «musicoterapia» e la verità è che confondono abbastanza le idee: dalla vasca idromassaggio con musica di sottofondo, alle playlist con musica ambient per rilassarsi (ce l’ho con l’algoritmo ormai si è capito!) che non sono altro che l’ennesima proposta di un ascolto distratto di composizioni musicali create apposta per non richiamare nessun tipo di lavoro intellettuale durante l’ascolto e certamente funzionano come rilassamento. Ma questo non è Musicoterapia.

Secondo la definizione fornita dalla Commissione Pratica Clinica della World Federation of Music Therapy al Congresso Mondiale di Amburgo nel 1996, per musicoterapia s’intende l’uso della musica e dei suoi elementi di suono, ritmo, melodia e armonia per opera di un musicoterapista qualificato, in rapporto individuale o di gruppo, all’interno di un processo definito, per facilitare e promuovere la comunicazione, le relazioni, l’apprendimento, la motricità, l’espressione, l’organizzazione ed altri obiettivi terapeutici degni di rilievo, nella prospettiva di assolvere i bisogni fisici, emotivi, sociali e cognitivi di una persona.

Si tratta quindi di utilizzare la musica come mezzo terapeutico. Il musicoterapeuta cerca di instaurare un processo di comunicazione non verbale con il paziente, attraverso il «suono» (ancora prima della musica) con obiettivi non musicali ma relazionali. Il Terapeuta cerca innanzitutto di stabilire una relazione empatica e di fiducia con il paziente. Creare uno spazio in cui la persona si possa abbandonare per raccontare e raccontarsi in totale libertà e si senta contenuta e sostenuta.

La chiave sta principalmente in due aspetti: il primo è la comunicazione non verbale. Ci sono persone che hanno la parola compromessa, non possono parlare, il linguaggio è la loro gabbia quotidiana, un mezzo inutilizzabile per esprimere volere e soprattutto emozioni che non riescono a trovare conforto o canalizzazione. L’esperienza non verbale allora mi dà la possibilità di uscire dal limite del linguaggio.

La musica ha intrinsecamente tutti gli elementi che mi permettono di «tradurre» le emozioni. Essa esprime direttamente il sentire attraverso il ritmo, la melodia, la dinamica, il timbro degli strumenti, la tonalità, l’agogica. Se una persona è arrabbiata, probabilmente sceglierà di suonare un tamburo, fortissimo, e con una cadenza ritmica costante e marziale, ad esempio. Il musicoterapeuta a questo punto può stabilire con lei un dialogo sonoro musicale (con un altro strumento ad esempio) per accogliere l’emozione, condividerla, modularla, e farla defluire quando sarà il momento, canalizzare l’emozione e farla diventare qualcosa di diverso. E così ovviamente anche la gioia, la tristezza, ecc. Senza ricorrere alla parola.

Il secondo aspetto strutturale è il suono come luogo primario di raccolta, come primordiale ambiente di pace che ricorda l’utero, prima del trauma della nascita. La ritmicità e armonia della musica dell’utero riporta a quello stato di benessere in cui la pulsazione del cuore, le melodie gastriche della madre, la voce rassicurante sentita dal orecchio (primo organo che si sviluppa) e dalle vibrazioni dell’acqua dove ci siamo formati. La vita fisica è naturalmente ritmica e armonica. La malattia coincide in effetti con la disarmonia o l’aritmia ed è a questo aspetto che cerchiamo di tornare e ri-armonizzare per ritrovare la salute (mentale e fisica).

Quindi come accennavo sopra, la leva del lavoro del musicoterapeuta è la relazione:

«Con il termine musicoterapia improvvisativa, consideriamo un tipo di musicoterapia che si riferisce alla tecnica di improvvisazione sonoro musicale grazie alla quale il terapista punta a creare e sviluppare una relazione con il paziente attraverso un dialogo sonoro musicale» (Raglio & al., 2011)

Nel approccio improvvisativo, il paziente è libero di creare produzioni sonoro-musicali aprendo un canale comunicativo con il musicoterapeuta; il musicoterapeuta a sua volta, identificando degli elementi musicali (tempo, pattern ritmici, dinamiche espressive, tonalità e linee melodiche) nei comportamenti musicali e non musicali del paziente, gli propone una struttura prevedibile, empatica e di supporto in modo tale da attrarre la sua attenzione, coinvolgerlo nella relazione e tentare di instaurare un dialogo con esso

Il suono e la musica sono infatti particolarmente vicini ai processi di co-creazione e condivisione dal momento che sono in corso e si realizzano nel momento in cui vengono fatte. Nel momento presente. E’ fenomenologico, ed è nel momento presente che si gioca tutta la terapia. Questo qui ed ora, aiuta il paziente a modificare il proprio mondo interiore, attraverso momenti di incontro e sintonizzazioni aventi una funzione terapeutica e che lo conducono ad una maggior consapevolezza di sè. Quando si lavora sul presente si finisce inevitabilmente per modificare il futuro.

E l’ascolto?

E poi certo, c’è la Musicoterapia recettiva, che consiste nell’ascoltare certi brani in uno stato di rilassamento, esplorando i vissuti, le immagini, i ricordi e le sensazioni evocate dalla musica.

L’ascolto di musica può avere un effetto benefico sulla pressione arteriosa sistolica, frequenza cardiaca, frequenza respiratoria, qualità del sonno, dolore, ansia. I campi di applicazione più studiati ad oggi sono quelli riguardanti la facilitazione nel recupero della parola negli adulti afasici post-ictus cerebri, l’approccio relazionale nella demenza di Alzheimer e gli aspetti affettivo-comportamentali e cognitivi nell’infanzia.

Ascoltare musica genera un benessere psicofisico profondo, ci mette in sintonia con il mondo, con la terra, con il cielo, con la natura. In questo frangente possiamo anche includere i bagni sonori delle tradizioni orientali, l’effetto che la vibrazione di Gong e campane tibetane producono nel nostro corpo. Ma anche strumenti come il didgeridoo australiano con le sue onde sonore basse. Le onde sonore stimolano la nostra pelle in modo simile al massaggio, producendo effetti sugli organi corrispondenti, e poi in questi «bagni sonori» alcune frequenze particolari guidano la mente a rilassarsi e focalizzarsi.

Secondo Benenzon, uno dei padri della Musicoterapia occidentale, ognuno di noi ha un ISO personale (Identità sonoro musicale) come se fosse una biografia musicale legata ai vissuti e al funzionamento organico del proprio corpo e la propria mente. Non solo, ognuno di noi ha anche un andamento ritmico e delle movenze che sono percepiti all’esterno come un flusso, come una melodia! quante volte ricordate una persona più per un suo gesto o movimento che per il suo viso? L’ISO è la memoria storica dei nostri suoni, di quei suoni che aprono in noi ricordi, pensieri, sensazioni, emozioni…

In un incontro di musicoterapia il terapeuta mette in gioco anche la sua identità sonora accogliendo quella del paziente in uno scambio sonoro dinamico. Una conversazione senza la gabbia a volte ingannevole delle parole. Solo tu, io, la musica e attraverso di essa, l’Universo…

I greci dicevano che la musica è la medicina dell’anima

e io ci credo!